Un tocco della celebre essenza e una professionista ha una ‘madeleine’, o sindrome di Proust: la fragranza la riporta studente in laboratorio, quando dovette preparare una molecola del composto creato dal profumiere Ernest Beaux, nel 1921, per Coco Chanel

Mi trovo nella sala d’attesa del dentista, assorta nella lettura del mio libro, “Sorella mio unico amore” di Joyce Carol Oates, scrittrice che amo moltissimo, approfittando di quel tempo vuoto per leggere qualche pagina.
Arriva una donna, che saluta e si accomoda, sul divano nero della sala d’attesa, per attendere anch’ella il suo turno.
Rispondo – distrattamente – buonasera, ma, il suo profumo, che riconoscerei tra milioni di profumi, attira improvvisamente la mia attenzione, e la osservo.
È una donna sulla cinquantina, con i capelli biondi di media lunghezza, d’aspetto non appariscente ma gradevole, vestita in modo classico, con pantaloni bianchi, t-shirt e giacca blu. Ad avermi attratta non è però lei, ma è il suo profumo, Chanel N° 5, che stimola la mia memoria.
Così, all’improvviso, il ricordo è lì davanti a me, riportandomi indietro di venticinque anni, alla mia esercitazione di preparazioni organiche quinte, nel laboratorio di chimica delle preparazioni organiche, ed esattamente nel corridoio di destra al primo piano del vecchio edificio di Chimica dell’università “La Sapienza” di Roma.

Le esercitazioni in laboratorio

Quello di preparazioni organiche quinte era uno degli ultimi esami per gli studenti che, come nel mio caso, avevano scelto l’indirizzo organico del corso di laurea in chimica. Era un esame che prevedeva, al termine del corso, una esercitazione pratica di sintesi, ovvero la preparazione in laboratorio di un composto organico. Si trattava di una esercitazione obbligatoria, propedeutica per poter accedere all’esame orale.
Quell’esercitazione mi causava non poca ansia, perché noi studenti di chimica non eravamo avvezzi alle attività pratiche, all’università erano infatti molto poche le esercitazioni in laboratorio e, per di più, io avevo anche scoperto che non amavo le attività pratiche da svolgere nei laboratori, ma mi piaceva solo studiarla sui libri, la chimica.
Era il mese di marzo, a Roma cominciavano ad affacciarsi le prime timide giornate di primavera, anche se il clima era ancora piuttosto freddo, perché sotto al camice indossavo un dolcevita di lana di colore blu sopra ai jeans.

Abiti bucati dai composti chimici

Quando mi recavo in laboratorio stavo attenta a non indossare mai abiti nuovi o a cui tenevo in modo particolare, perché era frequente che gli acidi e i solventi che utilizzavamo trapassassero senza alcuna pietà il tessuto del camice, arrivando a bucare o macchiare gli abiti.
I camici di noi studenti non avevano però tante macchie e tanti buchi, come quelli del professore del corso e degli assistenti, che erano costellati di buchi e macchie, ormai invecchiate, sedimentate, diventate un tutt’uno con il tessuto del camice. Di questo il professore era particolarmente fiero, perché quello era anche un modo per mostrare a noi studenti la grande passione per il suo lavoro, per il nostro lavoro, e soprattutto il tanto tempo che trascorreva in laboratorio. Oltre ad insegnare, infatti, i docenti erano anche studiosi e ricercatori, che conducevano le loro ricerche nei laboratori dell’università, circondati da un corposo universo di tesisti, borsisti, dottorandi, ricercatori ed assistenti.

Il professore eccentrico

Ma, ritornando all’esercitazione nel laboratorio di preparazioni organiche, ad ogni studente veniva assegnata la sintesi, ovvero la preparazione in laboratorio, di un composto organico.
Era di origini austriache, il professore titolare del corso, ma ormai viveva a Roma da tanti anni, con la sua famiglia, cioè la moglie e cinque figli. Questo aspetto per me era incredibile, mi domandavo infatti come facesse a conciliare il suo lavoro e il suo impegno all’università con gli impegni della sua numerosa famiglia.
A modo suo era anche simpatico ed aveva una approfondita conoscenza di fiabe e di racconti fantastici.
Sicuramente questa sua conoscenza, pensavo, era dovuta all’aver raccontato e letto tante fiabe ai suoi cinque figli.
Spesso si rivolgeva a noi studenti utilizzando nomi e nomignoli vari, come i nomi dei sette nani di Biancaneve, oppure i nomi dei personaggi di Alice nel paese delle meraviglie, o dei personaggi di Pinocchio, ed ecco che qualcuno diventava Brontolo, o Pisolo, Alice o il Cappellaio Matto, o qualcun altro era uno dei tre Moschettieri. A volte dava nomi bizzarri anche ai composti chimici, e così complesse molecole diventavano il Gatto del Cheshire, oppure la Fata Turchina o Mangiafuoco.
Indossava spesso un gilet di colore giallo, che a mio avviso non gli donava molto, perché aveva una carnagione un po’ giallognola. A me non diede nessun particolare nomignolo o appellativo, probabilmente non gli ricordavo alcun personaggio, o semplicemente perché mi ignorava del tutto o, peggio, non destavo in lui alcuna empatia, ma di questo non era affatto dispiaciuta, anzi ciò mi dava maggiore tranquillità nell’operare in laboratorio.

Il ‘re’carbonio

Quelle esercitazioni rappresentavano però anche un momento di divertimento per noi studenti. Fuori dalle aule dove si svolgevano le lezioni, erano occasioni per conoscersi meglio, per far nascere nuove amicizie e anche nuovi amori.
Riconosco che, sebbene a me non risultasse particolarmente simpatico, il professore era molto competente e preparato, un profondo conoscitore della chimica organica, cioè la chimica del carbonio.
È questa la branca della chimica che appartiene a tutti noi e che permette agli esseri viventi, vegetali ed animali, di stare in vita, di nutrirsi, di crescere, di trasformarsi, non solo da vivi ma anche dopo la morte, in un complesso e intricato ciclo di reazioni che ha dato origine alla vita sulla terra oltre quattro miliardi di anni fa e, continuando ininterrottamente e passando attraverso pesci, rettili, uccelli e uomini curvi e pelosi, è arrivata fino a noi, plasmandoci così come siamo, dotati di meccanismi perfetti e imperfetti, di grande intelligenza, capaci di provare emozioni e, soprattutto, dotati di memoria.
Il carbonio è un elemento incredibile, l’unico che riesce a legarsi con se stesso, formando lunghe, lunghissime catene, oppure formando dei cicli, e questo avviene senza grandi spese di energia, è infatti proprio questa proprietà che ha dato origine alla vita sulla terra. Il carbonio, oltre a legarsi con se stesso, è spesso accanto ad altri compagni di viaggio, come l’azoto, il fosforo, l’ossigeno, lo zolfo, anche se il protagonista principale, il re di ogni molecola organica, è solo e sempre lui, il signor Carbonio.

2-metil undecanale ovvero Chanel n.5

A me fu assegnata la preparazione di un composto con un nome quasi impronunciabile, il 2-metil undecanale.
La molecola in questione ha una particolarità che a noi chimici è nota, si tratta infatti del composto che fu preparato per la prima volta dal chimico e profumiere Ernest Beaux, nel 1921, a cui Coco Chanel aveva commissionato la creazione di un profumo nuovo, a cui fu poi dato il nome di Chanel N° 5.
Devo dire che preparare quella molecola mi dava una certa eccitazione, e per un po’ mi sono sentita anche io un “mastro profumiere”.
Mi misi a lavoro, un lavoro per niente semplice. Innanzitutto bisognava cercare la procedura da seguire, individuare i reattivi e la vetreria necessaria, e poi cercare nei disordinati armadi del laboratorio sia gli uni che gli altri.
La vetreria andava poi pulita, perché spesso gli studenti delle esercitazioni precedenti la lasciavano sporca e con tracce delle sintesi precedenti, che avrebbero compromesso il buon esito del lavoro.

Un profumo intensissimo

Una volta organizzato tutto l’occorrente per poter operare, cominciava il lavoro di preparazione, di sintesi vera e propria. In questo caso, la sintesi genera due molecole gemelle, di cui solo una è quella che interessa, l’altra è un’intrusa da eliminare.
Le due gemelle andavano infatti separate attraverso un complesso processo, prima di riscaldamento e poi, raccogliendo meticolosamente quanto evaporato, attraverso il raffreddamento, era possibile separare per sempre le due gemelle.
Al termine del laborioso percorso ottenni due millilitri della tanto agognata molecola. Il profumo era pazzesco e intensissimo: aprendo il minuscolo flaconcino in cui conservavo quel gioiellino si riempivano i polmoni di quella essenza. Fatti gli opportuni calcoli, la resa di quella reazione, che in teoria avrebbe dovuto essere del cinquanta per cento, fu soltanto dell’otto percento. Quel risultato fu terribile, una grande sconfitta per me, nonostante il profumo riempisse l’intero laboratorio, anzi, tutto il corridoio.

Le note di testa di Chanel N° 5

Alla mia compagna di corso, che operava allo stesso bancone del laboratorio, di fianco a me, fu invece assegnata la preparazione dell’azulene, ed ottenne dei meravigliosi cristalli di uno splendido azzurro con una resa del trentasette percento.
Per un attimo provai una certa invidia, ma per fortuna quel sentimento mi passò subito, evaporò così come era evaporata la stessa molecola che avevo preparato, disperdendosi chissà come e chissà dove. Quella delusione era però per me anche la prova tangibile della mia scarsa propensione verso il lavoro pratico in laboratorio, che in alcuni casi un chimico svolge per poter fare il proprio mestiere.

“La mia Madeleine”

L’esercitazione, inoltre, aveva un suo peso anche nel voto finale dell’esame, e sebbene il mio esame orale fu brillante, da trenta, venni penalizzata da quella sintesi non ben riuscita, che mi fece abbassare il voto dell’esame a ventisette.
Il profumo di quella molecola, il 2-metil undecanale, che caratterizza le note di testa di Chanel N° 5, mi è rimasto dentro profondamente e riesco a riconoscerlo all’istante, tra milioni di profumi.
Credo che ognuno di noi abbia la sua “madeleine”, un odore, un sapore, che apre all’improvviso e involontariamente le porte della memoria, facendoci rivivere scene del passato, scatenando certamente reazioni chimiche, che sono tuttora inintelligibili, che mescolano passato e presente e creano un unico tempo, come in una magia.
La mia madeleine è Chanel N° 5, sebbene si tratti di un profumo che detesto!
Per fortuna, comunque, la vita mi è stata magnanima, offrendomi altre possibilità, e grazie al cielo il mio lavoro da chimica non si svolge in laboratorio.


Carolina Innella vive a Policoro in provincia di Matera, ed ha una grande passione per la letteratura. Ama leggere e scrivere, ha pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Momenti dell’anima”.

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