Nata col vento d’autunno nell’ottobre del  ’44, orfana di madre, venne allevata da nonna e zia ed istruita in collegio. Quando subì un grave intervento disse: “Ho incontrato il diavolo ma Dio mi ha detto che avevo ancora da fare”

In Angiola la nonna delle “grandi storie” Clarissa La Scalia racconta la storia della donna straordinaria che più ha inciso nella sua vita.

Il ‘44, un tempo lontano e diverso dal nostro ma stranamente simile: la guerra e i grandi dibattiti politici erano presenti allora come oggi.
La donna di cui voglio raccontare ha fatto per me la differenza, e lei è proprio del ‘44: Angiola Zugno, per molti “la bresciana”, per me la nonna delle grandi storie.
Questo dolce vento d’autunno nasce il 26 ottobre 1944. Già molto piccola dovette scontrarsi con le brutte malattie, prese la meningite come tanti bimbi di quel tempo, ma fu una delle poche miracolate,  visto che ne uscì sana e salva. Dopo tale esperienza mamma Faustina le fece il più bello dei doni, Giacomo, il dolce fratellino. Però in soli due anni il destino tolse ad Angiola parte dell’animo di ogni bambino: la mamma, che morì di tifo il 3 settembre del 1946, quando due anni dopo, nel ‘48, venne trovata una cura a questa malattia. Com’è beffarda la sorte!
Crebbe con le nonne Giacomina e Pierina, passando le giornate a correre per i campi e a rubare il salame agli zii per poi nascondersi sotto la grande gonna della nonna materna, Piera.

Minorenne figgiva dal collegio e tornava a casa

A dodici anni la spedirono nel Collegio delle suore di Maria Bambina di Brescia, per l’istruzione certo, ma anche perché un po’ di rigore non guastava. Pensavano le servisse un posto adatto a tenerla ferma per un po’, ma uno spirito libero rimane uno spirito libero e lei non amava stare chiusa lì. Come il vento fuggiva, ripercorrendo vecchi binari e lunghe strade per giungere dove avrebbe trovato ciò che di più simile ad una mamma possedeva, la nonna Pierina. Era lei che tante volte la trasportava sulle spalle o in bici facendole girare la grande piazza di Travagliato, che la accoglieva tutte le volte (furono due o tre) che la piccola peste fuggiva dal collegio e puntualmente sulla soglia della porta di casa, tanto felice quanto preoccupata le chiedeva “Angiulina, che ci fai qui?” e lei “sono scappata” con un sorrisone a trentadue denti.

Una perfetta donna istruita che non perse mai se stessa

“Angiulina” rimase in collegio fino ai diciassette anni e mezzo, imparò l’arte del cucito, si innamorò di Alessandro Manzoni, divenne una perfetta donna istruita e non perse mai se stessa.
Un giorno incontrò Diego Canicattì, l’uomo della sua vita, e se ne innamorò a prima vista nonostante lui vivesse a chilometri di distanza, capì di essersi persa negli occhi scuri di un perfetto siciliano alto, ben formato e di grande stile. Diego lavorava con gli animali e faceva affari con la famiglia di Angiola finché, bello come il sole, non decise di fare l’affare più grosso della sua vita: “mogli e buoi dei paesi tuoi” diceva, eppure sposò “la bellissima bresciana”.
Dopo il matrimonio vissero tre lunghi anni su al nord – nonostante le polemiche dei suoceri siciliani – nella speranza che l’unica donna che poteva, li aiutasse: Adriana Grandi. Una zia diventata ricca grazie al patrigno americano che la madre aveva sposato ai tempi della seconda guerra mondiale. Aveva abbastanza soldi ma ci girò intorno per parecchio tempo prima di negare il suo aiuto, così Angiola, pronta ormai ad accettare di dover vivere in Sicilia lasciando il padre da solo, con la rabbia alla gola pronunciò le sue ultime parole: “io me ne vado, ma tu morirai con il sedere sul cesso”.Volgare e pesante, eppure da non biasimare visto che il padre era l’unico affetto rimastole. Adriana Grandi morì qualche anno dopo di diabete, sola, nel suo bagno. La morte non è bella neanche quando arriva ai peggiori, questa però è una parte della storia che continua a darmi da pensare.

Un amore sulle note di ‘Azzurro’

Intanto, sulle note di “Azzurro”, nonno Diego aspettava che la sua amata tornasse in Sicilia quando, ogni sei mesi, saliva dal padre, e non appena il treno arrivava alla stazione lei lo vedeva lì, ad attenderla più felice che mai.
Nel frattempo sorella morte veniva a bussare alla porta, nascosta nell’ombra di un tumore al midollo osseo. Silenziosa e letale, si portò via Giacomo Zugno, il fratello che, come la madre, lasciò un bimbo di due anni e la moglie, a soli trent’anni. Nonna cominciò a soffrire di ansie, pensava che sarebbe arrivato presto il suo turno, perché questo fa la morte: ti riempie di brutti pensieri e soffia su di te il suo gelido vento, sembra ti stia alla nuca, pronta a tirarti via. Alcune volte lo fa, altre salta te e prende chi ami. Perciò il tempo non risanò le ferite di questa perdita e, ancora una volta, a soli due anni dalla morte del fratello, quando nonna teneva in grembo mia madre, l’ultimo sospiro fu di Luigi Zugno, il padre. Angiola portò avanti la gravidanza, con un po’ di instabilità e qualche malore fisico, poi, nonostante le vicissitudini, nacque Ileana Canicattì, sua seconda figlia.

Non ebbe la mamma ma una grande donna che le asciugò le lacrime

Angiola non ebbe la mamma a spazzolarle i capelli ma una grande donna che le tenne la testa sul petto e le asciugò le lacrime quando ne aveva bisogno: Albina Lela, sorella di Faustina. Quando quest’ultima morí, si occupò nonna Pierina della piccola, ma giunta l’ora anche per lei, le sue ultime parole verso Albina furono: “ti raccomando Angiulina”. E lei lo fece fino alla fine dei suoi giorni, offrì se stessa e i suoi beni alla giovane e ai suoi piccoli.
La zia non ebbe figli ma due mariti, il primo stravedeva per Angiola come la moglie, poi morì e lei per paura di restare sola sposò un certo Gatti, tipo antipatico e chiuso in sé stesso, tanto che non permetteva alla donna di telefonare in Sicilia e sentire la “spenacchia” (così la chiamava visti i suoi capelli sempre in disordine) per via dei prezzi del telefono, ma la zia in sua assenza, chiamava a casa Canicattì e ridacchiando esclamava “via il Gatto e il sorcio balla!” nel loro strano dialetto.

La mamma di tutti

Albina Lela beveva sempre del buon vino, la sua felicità però non nasceva e non svaniva da questo, la sua felicità era Angiola, che divenne una stella polare e mai lasciò che si spegnesse, finché il 24 maggio 1988 fu Albina quella che si spense, morendo di cirrosi epatica. Mia nonna pianse per anni la sua morte, perché effettivamente non ebbe mai una madre, eppure ne perse tre. Dell’ultima però, della “mamma di tutti”, non riuscì mai ad accettarne la perdita.
Il 5 dicembre del ‘97, Angiola venne operata di fibroma a Caltanissetta, un grosso mioma cresciuto nella zona delle ovaie che aveva ben quattordici centimetri di diametro. Diceva di aver visto accanto al suo letto, prima dell’operazione, la madre, il padre, il fratello e la zia Albina, perciò quando si risvegliò chiese incredula se fosse ancora viva.

Quanto desiderio d’amore vedo nei suoi occhi

Con il tempo si riprese mentre i figli crescevano, entrambi forse senza comprendere appieno il carattere un po’ spento della madre, molto permissiva, talvolta fredda e senza pazienza. È questo che succede quando la vita e la morte insieme piegano te e le tue giornate, diventi ciò che nessuno vuole comprendere. Eppure quanto desiderio d’amore vedo nei suoi occhi, quanta voglia di sorridere.
Fu davvero felice quando nacqui io, ho una foto ricordo in cui il nonno mi teneva tra le braccia con gli occhi colmi di lacrime e la nonna sorrideva ammirando quella scena. È un’immagine impressa in me nitidamente di uno degli ultimi momenti passati insieme. Solo pochi mesi dopo, il 22 dicembre 2004, “lei” bussò alle porte dell’ospedale di Agrigento e si portò via l’amore della sua vita, non sono certa si chiamasse “diabete” o “tempo” ma era lì per Diego Canicattì quel giorno, e per spezzare per sempre il cuore di chi lo ama anche oggi che non c’è più. Il treno dei desideri certe volte va proprio al contrario e quando i desideri si sgretolano dinanzi alla realtà, diventa chiaro per tutti.

Volare come il vento d’autunno

Angiola Zugno li aveva persi uno ad uno, temeva fosse lei stessa “l’uccello della cattiva sorte”. Per questo iniziò una grande battaglia con se stessa. Voleva lasciare tutto e tornare al nord, buttare via l’eredità di suo padre e della zia spesa nella grande casa – ormai vuota – in cui viveva e volare via come vento d’autunno quando il gelido inverno spezza e spazza. Poi il lume si accese, alimentato dalle preghiere di mia madre che le chiedeva di restare: tutto ciò che aveva avuto era in quelle mura, la avvolgeva ogni giorno ed ogni notte. I suoi figli e sua nipote divennero l’unica famiglia rimasta, così, per quanto ormai potesse sentirsi spenta, capì di dover restare dove ancora la luce brillava.

Il diavolo non la voleva

Ma ancora una volta il futuro teneva in serbo per lei un’amara sorpresa: neanche dieci anni dopo la morte del marito sembrava che “colei che viene in silenzio” stesse bussando alla sua porta più tremenda che mai. Grazie a Dio il 22 luglio del 2013 Angiola non si trovava in casa, solo a qualche isolato di distanza a prendere un caffè a casa di cari vicini, quando iniziò ad avere le convulsioni e gli attacchi epilettici.
I medici le diagnosticarono un Meningioma laterale sinistro. L’intervento d’urgenza durò dalle 8 del mattino alle 15 del pomeriggio, nell’ospedale Villa Sofia di Palermo; un angelo, il Dottor Ettore Fiumara operò una Craniotomia bifrontale e al termine del lavoro i medici erano comunque incerti del risveglio. Furono ore di agonia, la morte aveva smesso di fare chiasso dopo aver compreso da Dio che non era ancora giunto il momento per Angiulina, o almeno fu questo che la nonna raccontò al risveglio: di aver incontrato il diavolo che non la voleva e di essere giunta al cospetto di Dio che le disse che c’era qualcosa da dover fare prima.

Esiste una ragione

Quindi nonna aprì gli occhi su quel letto d’ospedale, vide accanto a sé le persone che amava, stavolta davvero presenti, e con grande coerenza alla sua “nordica nonchalance” domandò: “avete pagato la bolletta della luce?”
Così la paura divenne un ricordo e la felicità in quel giorno prese vita come mai. La nonna cominciò a ricordare dettagli della sua vita passata che ci racconta ancora oggi alla bellezza di 77 anni, e sono sicura che esista una ragione per cui io ami tanto scrivere di lei, solo Dio sa quale sia, intanto lascio che questo vento autunnale mi inebri, mi trasformi e mi accarezzi mentre spero che in eterno la leggiadra penna guidi la mia mano.


Clarissa La Scalia, giovane scrittrice per il Virginia Woolf Project, scrive di sé:

Clarissa La Scalia_Virginia Woolf Project“Mi chiamo Clarissa La Scalia, sono di Canicattì (AG) ho diciotto anni e frequento il Liceo Classico e Musicale Empedocle di Agrigento. Nonostante la musica sia stata molto importante per il mio percorso, la letteratura e la scrittura sono diventate parte integrante di me.”


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