Dal racconto di Manuela Zaini. Con ‘Il giro di giostra’ narra la giornata di una lavoratrice e madre single, le sue riflessioni, i problemi, la solitudine e, soprattutto, la sua forza. In una città del nord Italia, anni ’80.

Nella stanza buia e silenziosa l’improvviso suono della sveglia. Anna aprì un occhio, meccanicamente allungò la mano per schiacciare il pulsante di spegnimento. Le sei e cinquanta minuti. Richiuse l’occhio e voluttuosamente si riavvolse le coperte intorno al corpo per ritrovarne il calduccio.
Ancora due minutini  –  si disse – prima di risalire sulla giostra”. Avrebbe voluto riprendere il suo sogno, un sogno incredibilmente luminoso e sereno; ne ricercò le immagini, riapparve solo qualche bagliore di luce; erano già svanite, dissolte dall’irrompere della quotidianità.
Riaprì gli occhi che ineluttabili si diressero verso la sveglia. “Cazzo le sette e mezza!”. Con un balzo si scaraventò dal letto gettandosi le coperte alle spalle.
“Oggi il giro di giostra comincia male” – si disse agitatissima. Aveva coniato quella espressione, riferendosi ai ritmi frenetici della sua giornata, da quando si era trasferita in città con i suoi figli.

La sua era stata una scelta consapevole

La sua era stata una scelta consapevole (di tutti gli inconvenienti di vivere sola in una città sconosciuta, senza il sostegno della famiglia, che viveva in provincia), fatta dopo la separazione dal marito avvenuta un anno prima. La famiglia aveva cercato di dissuaderla a fare quel passo. Anna però era decisa e alla ricerca di una vita diversa da quella precedente: aveva bisogno di aria nuova, di nuovi stimoli, di sfidarsi e dimostrare a se stessa che poteva farcela. Aver preferito la libertà, la propria dignità di donna a un rapporto di coppia divenuto ormai troppo conflittuale aveva un prezzo: la giostra, appunto, e la responsabilità che si era assunta decidendo di portare i figli con sé.
La giostra era per lei la rappresentazione plastica del continuo ripetersi quotidiano delle stesse azioni: alzarsi, alzare i bambini, preparare colazioni, andare al lavoro, fare spesa, cucinare, lavare, stendere panni, controllare i compiti del figlio ecc. ecc.

Tutto in corsa, come il Bianconiglio di Alice

Tutto in corsa, come il Bianconiglio di Alice che, l’occhio fisso ad un enorme orologio, correndo esclamava: “È tardi, è tardi”. In tutto questo, se ne rammaricava, c’era sempre poco spazio per ascoltare i suoi figli, giocare con loro, coccolarseli. Non c’era tempo e basta. Anna non si lamentava della sua vita, anzi ne era fiera. Non avrebbe mai barattato la sua libertà per tenere in piedi un rapporto ormai esausto, litigioso al limite della rissa su qualunque fatto, parola, gesto, in cambio della sicurezza e del prestigio sociale che la società conferisce alla donna sposata.
In quell’anno di solitudine era riuscita infine a costruire nuove relazioni. Una donna, per lei importante, era entrata casualmente nella sua vita: Sandra, cittadina doc, anche lei separata con figlio (coetaneo del suo), con la quale condivideva i momenti liberi durante gli weekend in cui i figli stavano col padre. Sandra l’aveva introdotta nel suo giro di amicizie. Anna non si sentiva più sola.
Anna si catapultò nella camera dei bambini e fece scorrere la tapparella per far entrare la luce del giorno.
“Sveglia ragazzi, è tardissimo! Su, presto, sono già le sette e mezza. Forza Michele, vatti a lavare e vestire. Cambiati calze e mutande. E fatti il bidet, mi raccomando” – incalzò Anna.
“Ma ma’, le ho già cambiate ieri” – si lamentò Michele trascinando fiaccamente i piedi verso il bagno.
“Te l’ho già detto cento volte che vanno cambiate tutti i giorni. E sbrigati che dobbiamo lavarci sia io che tua sorella. Questa mattina non facciamo in tempo a fare colazione. Prima di uscire prenditi dalla cucina una merendina”.

Anna prese in braccio la piccola stringendola dolcemente tra le braccia

Anna prese in braccio la piccola stringendola dolcemente tra le braccia: “Giulia, stamattina la mamma ha fatto tardi. Non riesco ad accompagnarti all’asilo. Vai a piedi con Consuelo e Franca. Va bene?”. Franca era la vicina di casa, Consuelo, sua figlia, frequentava lo stesso asilo di Giulia.
Tutti i pomeriggi la donna le riportava la figlia a casa da scuola; Anna non ce l’avrebbe fatta ad andare a riprenderla: gli orari d’ufficio e il traffico cittadino non glie lo consentivano. La bambina poi rimaneva presso la vicina fino al suo ritorno a casa. Franca, generosa donna del sud, non chiedeva nulla in cambio di questo servizio.
Ogni tanto Anna, in segno di gratitudine, le portava un pensierino: un vaso di fiori, una scatola di cioccolatini o biscotti di pasticceria.
Giulia si lamentò: “Ma devo andare a piedi, mamma, e sono stanca”.
“Lo so, lo so, piccola. Oggi non ce la faccio proprio. Domani ti porto io con la macchina. Ok?”.
Cominciò a toglierle il pigiamino e a rivestirla con la tuta che aveva preparato sulla sedia. Per fortuna le aveva fatto il bagno la sera precedente e non doveva perdere tempo a lavarla.
“Mamma, voglio mettere la vestina rosa. La tuta è bruttissima” – riprese a lamentarsi la bambina.
“Dai, la tuta va benissimo ed è più comoda all’asilo”.
“Michele hai finito?” – strillò poi dalla camera. Il bambino le comparve davanti tutto vestito e pronto per uscire. “Chissà se si è lavato i denti” – si interrogò dubbiosa. Michele faceva la quinta elementare e da un anno andava a scuola da solo, accodandosi ai compagni di scuola che vivevano nella stessa via, accompagnati dalle mamme che non lavoravano; stessa cosa al ritorno.

Con non poca ansia, gli aveva dato le chiavi di casa

Con non poca ansia, gli aveva dato le chiavi di casa; poi dall’ufficio lo chiamava tutti i giorni per accertarsi che fosse rincasato sano e salvo.
“Ciao ma’. Io vado”.
“Ciao Miki. A stasera”. Lo salutò Anna e corse in bagno a lavarsi.
Dalla cucina arrivò la vocetta acuta di Giulia: “Mamma!”
Sii, tesoro? Arrivo! Un attimo di pazienza, finisco di vestirmi. Intanto mangia la merendina che ti ho messo sul tavolo”.
“Mammmaaa!” – ripeté la bambina con un acuto.
“Arrivo!”
La voce della bambina si incrinò del tutto: “Ma mamma non mi hai messo le mutande!!”
Ormai la bambina piangeva: “Non mi hai messo le mutande!”
“Cosa?” – chiese Anna uscendo dal bagno. Andò verso la bambina per controllare. Le sollevò il cappottino e le allargò il bordo dei calzoni: nella fretta si era scordata di metterle le mutande.
“Cosa faccio ora? Per mettergliele mi tocca rispogliarla. Ha già su anche le scarpe. È tardissimo. Non ce la faccio” – rifletteva velocemente.
“Amore, scusami, ma stamattina siamo così in ritardo”. La prese tra le braccia e, baciandola sulle guance, le asciugò le lacrime con il dorso della mano. “Sai cosa facciamo?” – continuò – “Portiamo le mutandine alla Franca e le chiediamo di mettertele. Va bene?”
Si mise il cappotto e, presa per mano la bambina, uscì di casa. Suonò alla porta della vicina. Franca e Consuelo erano già pronte per uscire.
“Che c’è Anna?”
“Sono in ritardissimo Franca. Mi puoi portare a scuola Giulia? Io non ce la faccio proprio stamattina” implorò Anna. Le porse le mutandine della bambina.

Virginia Woolf Project stories - Il giro di giostra 2
“Che ce devo fa’?” – chiese l’altra.
“Franca, nella fretta mi sono scordata di metterle le mutande. Scusami, scusami per il disturbo. Gliele puoi mettere tu?” – rispose Anna imbarazzatissima.
Franca si mise a ridere di gusto:  “Ma certo! Vuoi che la portiamo a scuola smutandata? Vero, Giulia? Ci pensa la Franca. Sta mamma! Speriamo non si perda anche la testa”.
“Grazie, grazie Franca. Io scappo. Ci vediamo stasera”. Si chinò a baciare la bambina e si precipitò giù dalle scale.
Dov’è la macchina? Maledizione dove l’ho parcheggiata?” – si chiese una volta in strada. Tutte la mattine la stessa spasmodica ricerca dell’auto. Abitava in una zona con grandi caseggiati e raramente le accadeva di poter parcheggiare sotto casa, spesso anzi trovava posto in qualche via vicina. Salì infine in macchina e s’infilò nel traffico cittadino, che a quell’ora del mattino era sempre molto intenso.
Si bloccò appena uscita dalla sua via. “Semaforo rosso, semaforo rosso. Accidenti ai semafori! Ne becchi uno e poi son tutti rossi” – borbottava tra sé. Guardò l’orologio: erano già le otto e trenta. “È tardi, è tardi Bianconiglio. Oggi tarderò più del solito”.
Da quando viveva in città non era mai riuscita ad arrivare in orario sul posto di lavoro. Il che significava trattenute sulla busta paga e occhiatacce del capo. In attesa che la coda cominciasse a defluire, come tutte le mattine prese a guardarsi intorno. Spesso lungo il percorso, attendendo che la coda si muovesse, ritrovava gli stessi volti sconosciuti: volti ansiosi, volti annoiati, volti tristi.

Tutti soli, come lei chiusi in quelle scatole di lamiera

Tutti soli, come lei chiusi in quelle scatole di lamiera. C’era quello che si metteva il quotidiano sul volante per leggerne le notizie, lo scapperatore seriale incurante che altri lo osservassero, donne che si truccavano guardandosi nello specchietto.
Anche ad Anna non di rado capitava di terminare il maquillage in macchina. Finalmente la coda di macchine cominciò a mettersi in moto. Aveva calcolato che, in quel traffico delirante, per ogni chilometro impiegava cinque minuti: un totale di quarantacinque minuti per i nove chilometri di percorso da casa a ufficio.
A fianco della sua sede di lavoro, nella periferia nord est della città, da qualche tempo si era insediato un campo di zingari. C’erano mattine, e quella era una delle mattine, in cui Anna si chiedeva chi fosse più felice: loro o la schiera di schiavi che ogni giorno usciva di casa per trascorrere otto e più ore della propria giornata chiusi prima nelle macchine o in affollati mezzi pubblici, poi in uffici o officine?
Li immaginava liberi, fuori dagli schemi della società. Forse la loro vita era priva di comodità, di sicurezza. Ma per lei erano il simbolo della libertà. C’era una canzone che faceva: ‘Ho visto anche degli zingari felici …’ Chi la cantava? Non lo ricordava.
Con queste riflessioni si ritrovò davanti alla macchinetta della timbratura. Dalla rastrelliera prese il suo cartellino, lo timbrò, salutò qualche collega incontrato nel corridoio e con un sospiro entrò nel suo ufficio.


Virginia Woolf Project stories - Manuela Zaini - La giostraCiao, mi chiamo Manuela Zaini, da sempre sono impegnata nel volontariato, nel sociale e nella lotta contro la violenza di genere, nella storia di Anna ci sono un po’ io e tante altre donne che come guerriere affrontano le difficoltà del quotidiano.


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