La vecchia zia bigotta, giochi da bambine, la presuntuosa e la bamboccia e due destini incrociati ne ‘La donna che corre” di Flavia Sirangelo. Italia, 2020. 

Ogni giorno esco presto. Prendo la mia macchina e esco dal cancello elettrico. Si chiude alle mie spalle quasi silenziosamente. Prendo la strada che è in realtà più un viottolo di campagna, pieno di fossi insidiosi e quando piove devo ricordarli a memoria ma il più delle volte ci finisco dentro e poi proseguo. Ci sono poche case lungo il mio tragitto, disabitate d’inverno, festose e allegre d’estate. Più spesso ci sono i contadini che vanno e vengono con trattori e vanghe e terra, spargono zolle di terra lungo tutta la strada e la mia macchina traballa. Conosco lo spazio intorno alla mia casa: di fronte a me un terreno incolto, ma più avanti si susseguono oliveti e appena più in là e poi alla prima curva, ciliegi e in primavera è un incanto e di maggio sono sempre tentata di scendere e rubare. Ci sono poi i vigneti, a settembre carichi di uva, ma oggi è inverno e scorgo tra il verde delle foglie e degli arbusti selvatici, rotonde arance e mandarini. Il rosmarino non smette mai di crescere e andando avanti un albero di mele cotogne si sporge sul selciato.

Non è vestita come una donna che corre

Quando finalmente arrivo alla fine del viottolo, di fronte a me un pescheto, o meglio quello che ne rimane perché gli alberi sono stati abbattuti pochi mesi fa, e ora in me c’è solo il ricordo dei fiori rosa intenso e dei frutti abbondanti e profumati. Spesso uccelli di varie specie mi attraversano la strada. Di notte, quando torno, alle volte una volpe attraversa veloce.
In genere la incontro lì, la donna che corre. Lei non è vestita come una donna che corre. I suoi abiti sono comuni, pantaloni, una maglietta d’estate, una felpa o una giacca scura d’inverno. Lei non corre neanche ma cammina velocissima e porta sempre uno zaino sulle spalle. I capelli sono legati ma ciò che mi colpisce è la sua magrezza e il suo passo. Il corpo camminando veloce è teso e rigido, le braccia compiono sempre lo stesso ritmico movimento, il viso è tirato e serio, concentrato in quel suo passo ritmico e legnoso. Lo sguardo è concentrato, gli occhi bassi e sembra che non possa fermarsi mai. Mi sono chiesta dove abitasse e quanto tempo ci mettesse per arrivare qui dalla città. Mi sono chiesta perché sia qui alle prime ore del mattino visto che non è una di quelle donne che corrono per dimagrire, sentirsi in forma, abbigliate con colori vivaci e le scarpe costose e la macchina lasciata non molto lontano, ne ho viste tante da quando vivo qui. Lei non è così, forse, mi sono detta, cerca erbe commestibili o aromatiche o frutti o verdure dagli orti che si sprecano tutt’intorno, o porta da mangiare a cani o gatti randagi, ma io non ne ho visti mai. Molte volte l’ho incrociata e poi mi sono dimenticata di lei o quando non l’ho vista per molto tempo, mi sono chiesta se avesse smesso o si fosse ammalata, ma poi la incontravo di nuovo.
Un giorno lei ha alzato lo sguardo e io ho ricordato.

Le bambine? Dolci, gentili e generose

La mia infanzia non è stata felice; vivevo con una vecchia zia pettegola e bigotta che non mi faceva mai uscire a giocare con i miei simili. Ero sempre sola e lei guardava la vita passarle davanti da una finestra sempre chiusa, sapeva tutto di tutti e difficilmente approvava quello che vedeva. Io andavo a scuola ma in un tempo in cui le bambine dovevano essere dolci, gentili e generose, niente corse, parolacce, niente lotte con i maschi. Una volta tornai a casa con la tasca del grembiule stracciata che si era impigliata, mentre correvo, tra i banchi, e non c’era modo di nasconderglielo. Mi rimproverò in modo così aspro, rivolgendomi parole umilianti, come fossi stata una delinquente che non sarebbe mai stata una vera donna, come mi era richiesto, calma, dolce, compassionevole, silenziosa.
Quando mia madre decise finalmente di riprendermi con sé ebbi il permesso di scendere in strada a giocare, e fu l’inizio della mia vita e di ciò che restava della mia infanzia. Avevo già dieci anni, presto avrei dirottato i miei pensieri sui ragazzi ma per il momento avevo la strada e corse a perdifiato e sbucciature dei ginocchi e gelati da mangiare e amiche. Lei era una mia amica. Ed era l’amica più stronza che mi potesse capitare.

Mi chiamava “bamboccia”

Faceva il capo, decideva lei a che gioco giocare, chi dovesse vincere le gare di corsa, chi doveva disegnare per terra la campana e chi dovesse cominciare a giocarci per primo. Lei faceva trattative con i maschi, lei decideva se era tardi per restare o se potevamo giocare ancora un po’ quando si faceva buio e mia madre già chiamava il mio nome perché la cena era pronta.
Lei mi chiamava “bamboccia”, perché non capivo subito come andavano le cose, perché ero lenta e non abbastanza agile quando entravamo nei cantieri dei palazzi in costruzione, o semplicemente perché mi incantavo a guardare le nuvole o le stelle d’estate e la mia merenda era pane e pomodoro mentre lei non mangiava mai niente. Era magra com’è ora, tesa e rubizza, con due trecce secche secche e dritte e arrogante come nessuna altra. In sua presenza mi sentivo , come sarebbe stato per buona parte della mia vita in tante altre occasioni, inadeguata e lei non perdeva occasione per stuzzicarmi e a volte picchiarmi. Sembrava che mi stesse insegnando qualcosa che io non conoscevo e non volevo imparare.

Mestruazioni: fine dei giochi

I giochi per strada finirono con le prime mestruazioni. Piansi tanto, perdevo la strada, i giochi e le mie compagne, i ragazzi cominciavano a guardarmi e non andai mai più a giocare sotto casa.
E lei forse la incontrai qualche volta ma non ci salutavamo neanche.
E ora la incontravo tutte le mattine e mi tornava in mente il nomignolo con cui mi chiamava e quell’atteggiamento presuntuoso di chi sa e conosce la vita, l’amore e i baci e tutto ciò di cui io non avevo la minima intuizione. Per questo mi chiamava “bamboccia”. E ho sghignazzato con me stessa, non mi sembrava che se la passasse poi tanto bene ora con quell’impulso patologico a camminare, camminare e camminare, senza pausa, senza gioia, senza fine.
Poi seppi della morte del suo unico figlio. Poi seppi del grande dolore che la vita le aveva riservato e che allora, quando eravamo fianco a fianco per la strada e lei sembrava avere potere su tutto e su me, non poteva prevedere né allontanare .
Ora quando la vedo mi viene voglia di fermarmi ma forse lei non si ricorda di una bambina grassottella e impacciata, solo una bambina che voleva giocare, e non voglio disturbare la sua inarrestabile corsa verso il nulla.


Flavia Sirangelo_ Virginia Woolf ProjectFlavia Sirangelo, 62 anni, vive a Trani, in Puglia. Laureata in Lettere con indirizzo storico artistico, insegna storia dell’arte in un Liceo Artistico. Ha due figli da differenti relazioni. Ama l’arte e Jung. Scrive il suo diario, con varie interruzioni, da quando aveva 18 anni, e in questo periodo cerca di mettervi ordine. Scrive racconti brevi senza alcuna pretesa, ma le piacerebbe che qualcuno li leggesse, senza alcuna pretesa. La scrittura è per lei una forma di cura e una possibilità, quella di mettere ordine tra tutte le impressioni che le giungono dall’esterno, che siano vegetali, umane o animali,  e la  la sua realtà interiore, tentando una conciliazione e un’amore. Nel 2011 pubblica la poesia: “Tu non devi sapere


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