Da ‘figlia ingrata’ a donna passiva, con l’incubo delle vacanze estive, che cerca il riscatto: è ‘La scrivania in disordine’ narrata da Rita

Quando lui mi mostrò le foto della casa in cui avremmo vissuto nei mesi di quell’estate, ebbi un sussulto e fui assalita da un tale senso di nausea che, per rimediare, finii in un unico sorso la birra rimasta.
I suoi avevano scelto quell’appartamento perché il prezzo era conveniente, i materassi apparivano macchiati e vecchi, i bagni erano invasi da materiale di ogni genere così come i cortili, gli elettrodomestici ingialliti.
Non dissi nulla per non ferirlo a parte chiedergli se avessero riparato in tempo il rubinetto gocciolante. Avrei voluto parlargli di ciò che provavo se solo fossi riuscita a renderlo nitido. Oppure semplicemente alzarmi dalla sedia e ripercorrere a ritroso quel pezzo di strada, forse quei giorni e risalire alle abituali argomentazioni sparse che sembrano non avere mai un esito preciso, ma concluderanno con decisioni rimbalzanti per addossarsi le colpe.
Ho sempre vissuto la minaccia dei programmi estivi della mia famiglia, solita ad affittare un appartamento nei paesini del mare. Aspettavano la fine della scuola per farmi sparire. E sparire è stata una condizione che anch’io ho scelto spesso e in varie forme.

La stanza mi ha distruttuta e protetta

Inverni sui libri e in una stanza, la stessa che mi ha distrutta e protetta. Per loro era una rassicurazione e mi stava bene pensassero fossi diligente. La valutazione di me corrispondeva probabilmente al mio successo scolastico. Ma a me importava poco se questo serviva a soddisfare il loro bisogno di essere buoni genitori.
Non credo avessero mai chiesto il mio parere sulle scelte familiari, se avessi voluto che mia zia coi suoi figli si trasferissero da noi durante la chemioterapia di mia madre, se avessi voluto frequentare un altro corso di studi, se per caso avessi voluto salutare le mie amiche prima di andar via. La mia condizione di passività è stata una sorta di crogiolo confortevole e logorante perché lottare per un potere decisionale è sempre stato troppo faticoso. Ero impegnata a fare bene, a non dar problemi, a badare a mio fratello. Ad essere perfetta.
La motivazione dietro la quale si nascondeva la mia famiglia per la fuga dalla città era la malattia di mia madre. A lei “serviva” l’aria del mare.

La vacanza? E’ ‘sacrificio’

La mia definizione di vacanza è correlata da sempre a quella di sacrificio. Prevedeva un periodo diviso in più parti. I primi giorni si trascorrevano a sanificare fino all’intossicazione da candeggina tutti gli spazi della casa, poi avveniva il trasloco. Carica, scarica, carica, scarica. La stessa cosa avveniva durante gli ultimi giorni. La pulizia dell’appartamento in uscita era doverosa perché i locatori non dovevano giudicarci come persone luride. E di nuovo carica, scarica, ma in verso contrario. Al mare si andava dalle sei del mattino a metà mattinata perché abbiamo la pelle sensibile. I capricci di una pre-adolescente alle prese con le regole familiari erano puntualmente soppressi dai rimproveri di essere una figlia ingrata.
La gratitudine e il senso di colpa per la sua assenza hanno pervaso un’esistenza. Mi sentivo egoista per quel principio di autodifesa che provava a originarsi, così provavo puntualmente a sopprimerlo. Tenevo a bada quel fuocherello di libertà che avrebbe potuto salvarmi e nel tempo sono diventata più silenziosa e anche più arrabbiata. Ora, alla soglia dei trentacinque anni, fatico nel riconoscere chi sono e cosa mi piace. Ho annuito, accontentato, assolto chi ha consapevolmente posizionato nell’ombra l’essere privo di forma che sono.

Gli altri scelgono per me

Ancora una volta, seduta a quel tavolino, dovevo accettare qualcosa che io non avrei mai scelto. Lo avevano fatto al mio posto e io provavo ad acconsentire e ringraziare.
Rendere grazie a quel buon dio di non essere una bambina che muore di fame, di aver avuto la possibilità di studiare, di avere due occhi e due gambe.
Tenere a bada le aspettative, pensare che i progetti altrui che mi riguardavano fossero più meritevoli di quelli che avrei potuto fare io, punirmi per il mio egoismo ingrato. Sono diventata una persona che non si concede nulla, con obiettivi di lode e di magrezza. Incapace di felicità. E lui lo ha sempre saputo.
In tutta la sua disperazione mi aveva più volte urlato quanto avevo distrutto la sua energia e i suoi sogni. Le sue parole, dure e minacciose, mi hanno ferita molto, ma ancor di più aver riflettuto su queste. Aveva chiuso la porta della stanza col divieto di attraversare la soglia, preso i suoi vestiti negli armadi, pranzato in orari diversi dai miei e io mi sono sentita svuotata, ma sollevata. Pensavo solo a come avrei gestito quella separazione. Avrei dovuto parlare con i miei che mi avrebbero giudicata per una relazione interrotta in un’età in cui avrei dovuto pensare al matrimonio e ai figli. Avrei abbandonato il gruppo degli amici e passato l’intera estate in un ambiente di pena e commiserazione. Lui se ne sarebbe andato e io avrei dovuto trovare un inquilino nuovo, gestire contratti, passaggi di nominativi.

Imparare a pedalare!

Capii che forse non sarebbe stato mai un compagno di vita, ma un’ennesima scelta, sbagliata, ma rassicurante. Ero dipendente da vent’anni da una relazione che, per quanto mi facesse soffrire, non avrei mai interrotto.
Ci legano molte esperienze e l’intesa sessuale è un elemento appagante tuttavia siamo due ultra-trentenni che hanno vissuto la dannazione di essere stati bambini adultizzati e irrisolti. Non riusciamo a progettare di essere una famiglia perché le nostre hanno massacrato i sogni e non vogliamo ripetere errori con ipotetiche parti di noi che verrebbero fuori con mescolanza di passati da perdonare.
In quei giorni dormivo da sola, con la finestra aperta per un peso sul torace che bloccava il respiro. Pensavo che lì con me ci fosse mia nonna ad accarezzarmi e cullarmi. Mi avrebbe raccontato storie già sentite mille volte e avremmo riso della sua ingenuità e pianto per le sue mancanze. Mi addormentavo così e tra le sue cure anche il peso del mio corpo dolorante provava sollievo.
Nei giorni seguenti, non ricordo come, abbiamo ripreso a dormire insieme. Io mi sentivo serena, avevo fatto alcune scelte. Provai persino ad evitare i miei perché i loro toni e i loro discorsi focalizzati sempre e solo su sintomi e soldi mi bastonavano.
Ho imparato ad andare in bicicletta, ho avuto le gambe per giorni contuse e felici.
Ma lì davanti a quel bicchiere ormai vuoto, mi sentivo in procinto di un altro errore. Avremmo dovuto tenere a bada le origini e la loro foga di sostituirsi piuttosto che lasciarci invischiare in progetti che non ci appartengono.
Ero pervasa da interrogativi, delusioni e paure. E lui, notando quello che i pensieri avevano scritto sul mio volto, chiese perché il mio umore era cambiato all’improvviso. In un vortice di pensieri fallimentari mi sembrava di aver perso quel filo rosso che avevo recuperato durante la separazione.

Il bicchiere vuoto

Niente poteva minimizzare il lavoro per liberarmi da ogni genere di vincolo e posizionarmi al centro del mio scegliere. Ma preferii rispondere come al solito “niente” e ripiombare nel baratro del non detto.
Arrivò la cameriera e portò via il mio bicchiere vuoto. Ad un tratto rinvenni e tentai di ricordare. Avevo acquistato scarponi e impermeabile, in quei giorni avevo letto di percorsi e sentieri. Volevo sentirmi viva e percepire il mio corpo respirare e stancarsi. Vedere posti sconosciuti, perdermi e ritrovare la strada. Farlo da sola.
Potevo partire da dove avevo lasciato prima di finire a letto con lui, da uno zaino semiaperto e da una lista da depennare abbandonati sulla scrivania.
Così gli sorrisi come avevo cercato di fare giorni prima anche mentre sputava parole che non meritano memoria. E respirai così profondamente che sembravo cercare qualcosa dentro di me. Mi alzai dal Blues Canal e dissi che volevo tornare a casa.
Avevo lasciato la scrivania in disordine.


Rita Gratis è lo pseudonimo letterario scelto dalla nostra autrice


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