La forza di una donna che reagisce a una tragedia familiare e decide di diventare imprenditrice: la responsabilità è anche aria di libertà

La notizia arrivò all’ alba. Melina sentì bussare alla porta e si incupì. Era un suo cugino che aveva ricevuto notizie da Palermo. Il camion su cui viaggiava suo marito aveva avuto un incidente grave, frontale. La cabina del camion si era accartocciata, l’autista era morto e Salvatore che dormiva sul lettino dietro l’autista era in coma per un grave trauma cranico ed era ferito alla faccia. Era ricoverato in rianimazione al Civico di Palermo. Melina si svegliò del tutto e assorbì tutte quelle cattive notizie, il suo cervello si mise in moto. Doveva andare da suo marito che aveva sicuramente bisogno di lei. Le sue due figlie dormivano serene; lei uscì di casa e andò a bussare a casa del fratello, lo informò dell’accaduto e gli chiese se poteva portarla a Palermo. Il tempo di organizzarsi e partirono. Né lei né il fratello erano mai stati nel capoluogo siciliano, anzi non si erano mai allontanati da Licata , il paese natio. Era il 1962 e i 200 chilometri che separavano Licata da Palermo sembrarono a tutti e due infiniti. Suo marito durante la stagione del raccolto andava spesso a Palermo col camion che trasportava le sue primizie al mercato ortofrutticolo. Voleva essere presente alla vendita. Melina era furi di sé, la strada sembrava le galleggiasse intorno. Pensava al marito che lottava con la morte, a lei, e alle due bambine, cosa avrebbero fatto se Salvatore moriva ?

La situazione era grave

L’angoscia le stritolava il cuore e la mente, il viaggio le sembrò eterno. Suo fratello quando entrarono in città chiedeva informazioni ai passanti, si destreggiava in mezzo al traffico, e finalmente arrivarono al Civico. L’ospedale era enorme, tanti piani, tante scale, tante richieste di informazioni per poi sentirsi dire davanti alla porta del reparto di rianimazione che nessuno poteva entrare, che la situazione era grave, che la prognosi era riservata. Loro insistettero, non sarebbero andati via senza prima avere visto il malato, e finalmente un medico si impietosì e li portò dietro un vetro da cui si vedeva il lettino. Suo marito giaceva inerte, tutta la testa era avvolta in fasce, poteva essere chiunque, solo gli occhi azzurri erano liberi ma erano chiusi. Salvatore dormiva di un sonno profondo, malato, era intubato, attaccato al respiratore ed a tanti fili.

Pratica di resilienza

Melina pianse disperata poi suo fratello la trascinò via, sarebbero tornati. Melina imparò a prendere il treno delle sei che arrivava a Palermo alle dieci e mezzo, imparò a prendere l’autobus che dalla stazione la portava all’ospedale Civico, imparò quali scale salire, dove potere andare in bagno dove comprare un panino e ogni giorno per due mesi andò a trovare il marito. Tornava a casa la sera alle venti, in tempo per cenare con le bambine che si erano trasferite dalla nonna. Andava a dormire esausta e alle sei era di nuovo alla stazione. Piano piano Salvatore migliorò, riprese conoscenza, e dalla Rianimazione fu trasferito in Chirurgia; gli medicavano ogni giorno la brutta ferita che aveva in faccia, dall’occhio sinistro fino al mento. Per fortuna non aveva perso la vista ma quando provava ad alzarsi le vertigini lo coglievano e questo disturbo se lo portò dietro per molti mesi. Adesso Melina era più tranquilla per la salute del marito e si concedeva di andare all’ospedale a piedi.

Povertà alle porte

Attraversava  cil piazzale davanti alla stazione, percorreva corso Tukory e in meno di mezz’ora era al Civico. La mattina c’era tanta gente in giro, per lo più giovani studenti; tutti camminavano in fretta, lei respirava e sentiva l’energia che le riempiva il corpo. Pensava alle sue figlie e si chiedeva se da grandi avessero voluto studiare magari proprio a Palermo dove c’era una grande Università. Il pensiero la faceva sorridere e nel contempo insinuava in lei tante preoccupazioni. Avrebbero avuto i soldi per farle studiare? L’incidente accorso a suo marito, il suo lungo ricovero le avevano insegnato che se il capofamiglia non poteva lavorare la povertà era alle porte. Quell’anno il raccolto era andato a male, avevano dovuto usare i risparmi per mangiare e affrontare tutte le spese e suo marito non era ancora perfettamente in forma. Capì che anche lei doveva darsi da fare, doveva e voleva aiutare la sua famiglia.

Diventare una capofamiglia

Lentamente dentro di lei si formò la decisione di aprire una bottega, suo padre vendeva frutta e verdure, lei avrebbe aperto una bottega Alimentare; ne avrebbe parlato col marito. Si sentiva più leggera ora che aveva preso quella decisione. Si godette la passeggiata ma mai ebbe il coraggio di fare capolino in via Maqueda o in corso Roma. Le sembrava di non potersi allontanare dal tragitto che la portava dal marito.


Il miracolo dell'acqua - Vincenza Russotto Virginia Woolf Project 3Vincenza Russotto, dopo aver svolto la professione medica, è ora in pensione. E’ alla sua quarta pubblicazione per Virginia Woolf Project.

Le altre sue pubblicazioni:

Il miracolo dell’acqua

‘Non ci sono lavori da maschi’
Imparare l’italiano? Leggere a perdifiato


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La raccattastorie
La madre ritrovata


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