Caro Futuro“, scrive la giovane donna che ‘veste male le ombre’ mentre finisce la tesi in ‘Margherita e la finestra blu’ di Valentina Borla

Margherita vestiva male le ombre. Le cadevano addosso dal cielo come se non rispettassero l’allineamento del sistema solare. Aveva tra le mani una foto scattata cinque anni prima a Roma. Un’inquadratura che la ritraeva di spalle, in un chiostro vicino a Campo dei Fiori. I capelli biondo cenere con dei fili d’oro cadevano leggeri su una veste bianca. Ogni volta che si riguardava in quell’immagine, le sembrava che Caravaggio avesse esagerato con i chiaro-scuri.
La quarantena era iniziata ormai da una settimana: Margherita doveva dunque abituarsi a vestirle male, o a non vestirle proprio; doveva convincersi che non le importava. Erano solo ombre.
Ma insomma basta distrarsi, scrivi – pensò – devi finire, continua. Finire di scrivere per poi iniziare a leggere o a scrivere qualcos’altro, ma più liberamente.
Avere in testa una corona d’alloro per un giorno intero ha un prezzo, il prezzo di un inchiostro che non è nero, ma rosso come il sangue e appiccicoso come il sudore. Quindi. Ora. Scrivi. Le mancavano le ultime due pagine per concludere la tesi di laurea: mai come in quel momento le sembrava di scalare una montagna rocciosa a piedi nudi. Sarà perché era da un po’ di tempo che un raggio di sole non la sfiorava più con la perpendicolarità tipica delle ore centrali. Nel piccolo appartamento blu le era concessa solamente la luce di sbieco, proveniente dalla finestra; non c’era nemmeno il balcone. Oggi sono arrivati i nuovi vicini- annotò sul suo diario. 16 marzo.
Niente da fare, non tollerava più la scrittura accademica. Ogni distrazione era buona. Buffo traslocare nel momento in cui le città sono blindate. Non ci si può abbracciare e c’è chi mette su casa. Non aveva ancora visto i nuovi vicini; tuttavia riusciva a sentire le loro voci oltre le pareti sottili. Voci nuove, sconosciute. Quello non era più il passo familiare di Clelia, era quello di un’altra persona. Di chi si trattava? Una donna giovane disse: «Prendi lo scatolone della bambina». C’era anche una bambina, quanti anni poteva avere? Nessun gemito, nessuno schiamazzo, nessun papà qual è la mia stanza. Per quanto sapeva, poteva avere due mesi come undici anni. Perché si è ancora bambini a undici anni. I colpi di martello rimbombavano come colpi di tosse sul muro. Sbattevano con un ritmo cadenzato, polveroso, inesorabile, che rimbombava per tutto il quartiere.

Il suo tocco di felicità quotidiano

L’unico rumore che si poteva percepire nell’arco di centinaia di metri; più in là, il fiume. Avrebbe voluto sentire il frusciare della carta sotto le sue dita, avere i calli da pennino, ma per quello era nata troppo in là negli anni, nei secoli. Nessuno scrive più su carta. O, meglio, nessuno scrive più e basta. Questa era la ragione per cui amava sentirsi diversa, il suo tocco di felicità quotidiano. Un computer di fronte, il cursore che lampeggia in attesa del suo dito su un tasto qualsiasi. Ma il suo lato destro del cervello sceglieva la carta del diario. Incondizionatamente. Non fosse per il cursore che le ripetevascrivi, è tardi. Tardi per cosa? I suoi occhi rotearono in aria per un istante, stava cercando di pescare un’idea nel cestino della memoria a breve termine, una stanza luminosa piena di cartacce. Era quello un processo che le richiedeva uno sforzo notevole: non ricordava di averci mai messo tanto tempo per ricordarsi quale giorno della settimana fosse, ora che lo spazio di ventiquattr’ore le sembrava ripetersi all’infinito. Come una lunga domenica nuvolosa, vuota, senza fine. E allora scrivi, così il tempo ti passa più in fretta. C’è chi dorme e c’è chi scrive. Dormire per cosa? Per non sentire o provare emozioni tossiche (il verbo inglese feel cadrebbe a pennello). Il sonno si era dileguato da settimane, come se fosse elemento caratterizzante di una specie ormai estinta. Poi c’è chi trasloca perché probabilmente se l’era promesso qualche Capodanno addietro e, in seguito a una serie di promesse e ripromesse, il nuovo decennio sembrava potesse avere l’aspetto di un nuovo capitolo felice.
La bellezza di credere ancora in qualcosa, la bellezza dell’ignoto – quella sì, pensò Margherita, quella è la vera speranza, la vera felicità. Lei? Lei credeva ancora in qualcosa? Il fascino del dogma era cosa passata. Pensò al suo passato da chierichetta con un sorriso stampato sul volto. Lo stesso che aveva allora, ma senza ferraglie tra i denti e con qualche ruga d’espressione ai bordi delle labbra. Era stata una bambina diligente: seguiva sempre la celebrazione senza perdere troppo il filo e imparava a memoria le parole delle Sacre Scritture, come esercizio, perché poi il vescovo interroga – dicevano.

Le piaceva giocare alla piccola filosofa

A scuola si interrogava spesso sulle possibili congruenze e discrepanze riguardo a ciò che le era stato detto dai grandi. Le piaceva giocare alla piccola filosofa (non che allora sapesse cosa sia la filosofia): «Maestra Anna, a cosa devo credere? Alla religione, o a quello che c’è scritto sul libro di scienze?». Non ricordava cosa le avesse risposto la maestra: l’aveva rimosso.
Più che logico: ci sono due possibilità, due alternative plausibili, quale scelgo, maestra? L’intelligenza pura e ingenua dei bambini – pensò. Credono che gli adulti siano padroni di una qualche verità assoluta, e lasciano che la loro pagina bianca si contamini di mezze verità. «Quando sarai grande capirai.»
Avrebbe potuto recitare qualche preghiera, in tempo di pandemia è concesso riscoprire la fede. La fede in quel raggio di sole che le tagliava il volto a Campo dei fiori, in lotta con le ombre. Quello era il suo Dio adesso. Abbastanza lontano e desiderabile, era perfetto. Perfetto per un legame sufficientemente astratto. Un’idea che sa d’amore, di natura, di un mondo di cose che succedono all’esterno: i gatti che miagolano, l’acqua che passa sotto ai ponti, i bulbi dei tulipani che crescono. Fuori. Fuori era la vita.
«Caro Futuro» – riprese a scrivere di getto, sempre sulla stessa pagina di diario, quasi si fosse dimenticata che i nuovi vicini stavano traslocando e che il cursore la stava attendendo.
«Caro Futuro, se mi rivolgo a te, come se tu fossi una persona, una persona-con-la-lettera-maiuscola, sarai magnanimo e ti concretizzerai prima, prima di domani intendo. E proprio qui, accanto a me. Ma ora dimmi: mettere il punto a un lavoro durato mesi e attendere ciò che verrà, è questa la felicità? Un cielo instabile, solo muri all’orizzonte? Oppure la felicità vera, reale, è quella che sta nella casa accanto, nel rompere muri e costruirne di nuovi, più sicuri, con la persona che si ama (o si pensa di amare)?». Forse avrebbe dovuto interrogare un negromante.

“Dille di non dubitare di se stessa”

Oppure così: – «Caro futuro, ce la metto tutta, davvero, ma qui chiudono i confini, le scuole, hanno chiuso addirittura le porte di casa. Spero non ci chiuderanno anche la bocca». La sua mente continuava a muoversi in un reflusso tra passato e futuro. Le venne in mente la frase che ripeteva sempre il suo professore del liceo: è attraverso la bocca che impariamo a conoscere il mondo.
Tornò poi alla lettera: «Caro futuro, se mi senti, corri veloce lungo l’arco degli anni passati, vai a svegliare la bambina dormiente: mostrale la via per scrollarsi di dosso le ombre, anche se sono comode e la vestono a pennello. Dille di non dubitare di se stessa: riuscirà in ogni cosa, anche se le sue aspettative non corrisponderanno a pieno con ciò che realizzerà. Forma e sfumature saranno differenti.
E no, non avrà lavoro, casa e famiglia entro i venticinque anni; avrà un solo robusto tassello da cui partire e costruire tutto il resto. Un gradino su cui saltella da sola, o quasi. Certo si sorprenderà quando si scoprirà felice, tremendamente irrequieta nel continuo cambiamento, nel continuo flusso di gente che viene e che va, ancorata ai pochi che restano.
Bada bene, caro Futuro, che capisca che la perfezione non esiste. Dille che, anche quando sarà più adulta, le mancheranno inevitabilmente alcune risposte.
Caro Futuro (o caro Passato), dimmi, sarebbe stato meglio rimanere incollati nell’ovatta dell’ingenuità? A quella ragazza che, in preda a un ottundimento, pensava la felicità fosse unidirezionale?».
Margherita allungò l’orecchio destro al muro blu: le voci sconosciute la riportarono alla realtà. I due giovani continuavano a parlare della bambina, ma di lei nessuna traccia.
Chissà come si chiama- pensò. Le sembrava fosse “un’occhiatina” al suo futuro in potenza, ciò a cui aveva rinunciato, ciò che non era ancora: Margherita aveva già deciso i nomi, dei suoi ipotetici figli. Quanti figli aveva già partorito con la testa! A venticinque anni era madre di una decina di figli immaginari. Mai vissuti e, proprio per questo, immortali.
«Caro futuro, va’ dalla piccola me e dille che c’è ancora tempo per ogni cosa». Margherita si alzò, aprì la finestra. Mise un punto alle due pagine bianche e, finalmente, fece entrare la vita.


Valentina Borla - Virginia Woolf ProjectValentina Borla, 25 anni, provincia di Torino, è neolaureata al corso di laurea magistrale in Culture Moderne Comparate all’Università degli Studi di Torino.
Redattrice per giornali online,  aspira a lavorare come docente di lettere presso la scuola secondaria.
Appassionata di viaggi, di letteratura, arte e fotografia,  nel tempo libero scrive racconti e poesie. Cura il blog personale Scrivo solo quando piove

Valentina Borla è autrice della tesi ‘A street of one’s own’ di cui Virginia Woolf Project – ViWoP pubblica alcuni stralci nella sezione ‘Nella stanza di Virginia’


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